L’intervista a Gabriella Giordanella Perilli e a Ellery Latorre, autori del volume “La Canzone che cura”
di Commissione Volontariato, Beneficenza e Pari Opportunità del COMITES di Basilea
“La canzone che cura” è un libro che descrive, sostenuto da riferimenti teorici e scientifici, gli effetti della canzone nell’universo emotivo-cognitivo di ciascuno di noi, senza differenza d’età. Ecco cosa ci hanno spiegato gli autori del volume, Gabriella Giordanella Perilli e Ellery Latorre, psicoterapeuti e musicoterapeuti.
Come siete arrivati alla creazione di questo volume?
George Eliot scrive che “La vita sembra procedere senza sforzo quando sono pieno di musica”. Questa frase per noi due autori ha costituito il significato della nostra vita, prima ancora che diventassimo psicoterapeuti e musicoterapeuti. Infatti da piccoli abbiamo scelto di studiare musica per il fascino che ha esercitato su di noi, accompagnandoci nella nostra crescita personale. Ha costituito un mezzo per divertirci e far divertire gli altri, come anche per stare con noi stessi, in un ritiro lontano da distrazioni, una “solitudine” mentre suonavamo veramente utile per capire meglio alcuni nostri aspetti più nascosti, accompagnati da quelle particolari emozioni e sensazioni che si provano nell’eseguire brani di compositori diversi per stile e complessità.
E’ stato, quindi, naturale unire la musica, ed in particolare le canzoni, nella nostra pratica clinica, conoscendone il potenziale e la loro efficacia complementare negli interventi riabilitativo-terapeutici. La musica è da considerarsi una modalità comunicativa; come tale può essere o meno accompagnata dalla parola per cui va ad integrare modalità di psicoterapia verbale, a diversi gradi di rilevanza: dalla psicoterapia con la musica alla musica in psicoterapia. Questo è tanto più necessario quando sono le emozioni a costituire la centralità del lavoro clinico o quando il soggetto non è in grado di usare il linguaggio verbale. In questa prospettiva le tecniche ed i metodi con le canzoni offrono una varietà di esperienze adattabili agli individui, ai loro bisogni, scopi, in contesti diversi.
La ricchezza del materiale clinico raccolto dalle nostre molteplici esperienze, basate su teorie e ricerche scientifiche internazionali, insieme alle richieste ricevute da colleghi ed operatori, ci hanno motivato a scrivere questo lavoro “La Canzone che cura. Come aiutare con le canzoni”. Lo consideriamo un contributo, seppur limitato, per la conoscenza e la pratica terapeutica orientate alla promozione responsabile del benessere delle persone.
La musica, oltre ad avere un effetto sull’emotività e sul sistema cognitivo, ha forse anche effetti sul sistema neurologico?
Fin dagli anni ‘80, le neuroscienze hanno indagato sulle risposte del cervello alla musica. Con i progressi in questo campo, le ricerche si sono evolute disponendo di metodi molto più elaborati (tomografia magnetica funzionale – fMRT, tomografia ad emissione di positroni PET, encefalografia magnetica – MEG, ed altre tecniche di indagine). Con tali tecniche di indagine è possibile mostrare cambiamenti funzionali e strutturali in diverse aree cerebrali (corteccia uditiva, aree frontali, temporali e parietali oltre regioni sottocorticali) durante ciò che viene considerato un complesso processo quale è l’ascolto della musica. Nel caso dell’utilizzo della musica e delle canzoni a scopo riabilitativo e/o terapeutico, l’altra componente fondamentale per favorire una modifica significativa è la relazione che si sviluppa nell’incontro tra le persone. Infatti l’essere umano cresce e si sviluppa a contatto e nell’interazione socio-affettiva con gli altri esseri umani, in un sistema di attaccamento e cura. Tanto è che sono rilevabili risposte neurofisiologiche durante gli incontri di “cura”, in quanto, ad esempio, l’ippocampo è coinvolto nel processamento delle emozioni come anche di legami sociali e interpersonali. Per favorire una maggiore comprensione della complessità insita nelle risposte cerebrali alla musica e a compiti musicali, aggiungiamo che il cervelletto, oltre ad essere deputato a svolgere numerose funzioni motorie, per la sua connessione al sistema limbico è coinvolto in processi cognitivi ed emotivi, nonché nella percezione e produzione di ritmi e di reazioni emotive alla musica.
Un caso può servire a comprendere cosa può accadere nella pratica clinica.
Paolo è un giovane di 16 anni, tetraplegico per cause perinatali (ipossia conseguente al cordone ombelicale intorno al collo), ricoverato in una clinica a lunga degenza. Non parla ma emette suoni associati a suoi bisogni fisici (bisogno evacuare, fame) o ad emozioni (piacere). Con la co-terapeuta inizialmente cantiamo una semplice canzoncina, inserendo il suo nome. Per essere in sintonia e sincronizzarci con Paolo, eseguiamo la stessa canzone cambiando il tempo (velocità) di esecuzione e l’altezza della voce. Lo facciamo con o senza strumenti, come la tastiera ed il violino. Ripetiamo le varie proposte e possiamo notare che Paolo emette dei vocalizzi e gira la testa verso di noi soltanto ed ogni volta in risposta alla canzone accompagnata dal violino sulla corda di sol, cantata con tono di voce medio, ad una velocità moderata in accordo con il ritmo del suo respiro. Inoltre Paolo mostra attenzione (volge la testa e guarda), interesse (mantiene la posizione) e muove, specialmente il braccio e la mano sinistra, per toccare e far suonare le campani tubolari, suonate vicino a lui dalla terapeuta; anche in questo caso emette gridolini di piacere e rilassa la tensione dei muscoli del braccio e della mano nell’effettuare movimenti volontari. Da quanto sopra possiamo affermare che Paolo passa da una reazione data ad uno stimolo sensoriale (il suono) ad una risposta cognitivo-emotivo-motoria. Questo cambiamento di Paolo ci sembra un’espressione del suo coinvolgimento intenzionale al contesto musicale ed interpersonale per lui significativo. Dal comportamento manifesto osservato, ipotizziamo, in accordo alla letteratura esistente, un aumento dell’attività di quelle aree cerebrali (ippocampo, cervelletto, regioni frontali) che hanno un ruolo cruciale nel processamento dell’ascolto di musica e nelle relazioni, specialmente associate ad emozioni positive.
Reagiscono tutti allo stesso modo o vi è un modello di persona con caratteristiche specifiche più affine a trarre un beneficio dalla musica?
Ogni persona ha una sua risposta alla musica ed alle diverse esperienze musicali proposte nell’interazione terapeutica. Per tale motivo ciascuno va considerato come un sistema unitario e complesso, con proprie caratteristiche psico-fisico-spirituali integrate ed interagenti, portatore di una sua storia, sviluppatosi in un particolare contesto socio-culturale-relazionale. In aggiunta, l’individuo va considerato nella sua attuale situazione di vita, per comprendere i suoi bisogni, risorse, limiti, interessi musicali, difficoltà, valori, in modo da poter concordare scopi ed obiettivi (ad esempio: orientamento verso la realtà, regolazione emotiva, modi di pensare e comportamenti non funzionali, situazioni post traumatiche come anche la crescita personale). Questa indagine valutativa va effettuata all’inizio e aggiornata durante il percorso riabilitativo-terapeutico così da attuare quei metodi e quelle tecniche con la musica che siano più efficaci al miglioramento della qualità della vita di quella persona. Dalla nostra esperienza e dalla letteratura internazionale, possiamo dire che ognuno può trarre benefici, rilevanti o modesti, da esperienze terapeutiche con la musica, purché la persona si senta a proprio agio nell’avere esperienze con la musica e queste siano disegnate in modo personalizzato dal professionista competente.
Una eccezione a quanto sopra detto potrebbe essere rappresentata da soggetti con anedonia musicale, i quali non provano risposte di piacere come ricompensa emozionale alla musica, pur mantenendo la capacità di percezione sensoriale dello stimolo sonoro insieme a risposte emotive come ricompensa per stimoli di diversa natura (gioco, sesso, cibo). Va tenuto comunque presente che, anche alla presenza di questo disturbo neurologico, si può intervenire sulla componente psicologica ed emotiva associata al “come” la persona vive tale disabilità.
Carla, sessantenne, frequenta un Centro di Igiene Mentale per una forma di disturbo depressivo maggiore. Vive come un’imposizione intollerabile la prescrizione della psichiatra di partecipare agli incontri di musicoterapia di gruppo. Afferma di non sopportare qualunque genere di musica. Le chiedo se può sedersi fuori la stanza, libera di andarsene quando vuole. Accetta. Dopo alcune volte, entra affermando di farlo perché interessata alle nostre conversazioni. Un giorno, una partecipante sceglie la canzone “Mamma”, cantata da Claudio Villa. Carla scoppia in un pianto dirotto. Poi ci spiega che da piccola la madre le diceva che lei aveva “il cuore di pietra” perché non sapeva cantare, in quanto a scuola l’avevano esclusa dal coro mandandola, per di più, fuori dell’aula ogni volta che gli altri alunni facevano canto.
Il lavoro ha riguardato il vissuto che Carla aveva associato, nel passato, alle esperienze relazionali per cui si era sentita svalutata e rifiutata come persona inferiore e, quindi, non degna di essere amata. Mentre l’esperienza interpersonale vissuta al Centro, dove era stata accolta e considerata anche dalla terapeuta alla stregua degli altri partecipanti, le aveva permesso di modificare l’immagine di sé come persona “amabile”, nonostante non gradisse la musica.
Esperienze con pazienti dementi o malati di Alzheimer
Nella decennale esperienza con pazienti con demenza e/o disturbo di Alzheimer, ho utilizzato attività musicali di ascolto e canto, specialmente di canzoni soggettivamente significative; sono queste che fanno emergere ricordi, aiutano a modificare emozioni negative (ansia, rabbia, depressione) e la bassa valutazione che gli anziani con difficoltà hanno di sé e degli altri. Questi cambiamenti sono resi possibili in una atmosfera dove le relazioni sono caratterizzate da empatia, accettazione e condivisione. Le musiche che sollecitano la partecipazione saranno musiche di ogni genere e stile che piacciono alla persona ed importanti per la sua vita. Questo può aiutare i pazienti ad operare una transizione dall’utilizzo di funzioni cognitive deteriorate a quelle emotive, con conseguente sviluppo di un senso personale di efficacia e soddisfazione di sé. E’ importante tenere presente, nel programmare esperienze con le canzoni, che le emozioni, almeno nelle prime fasi del disturbo, sono, in genere, ancora attive durante il processo degenerativo dovuto a demenza o Alzheimer, ecc. e che le emozioni colorano e danno significato all’esistenza umana.
Vi è differenza fra diversi generi di musica? Come si spiega?
Sì, esistono differenze importanti tra i generi. La musica ha specifiche caratteristiche tecniche e parametri che permettono di suddividerla e classificarla. Ogni musica nasce in un contesto storico, geografico e culturale, è creata dagli uomini con strumenti che contribuiscono a definirne l’identità e l’estetica. Nel corso della sua evoluzione l’essere umano ha sempre cercato la musica e si è adoperato sin dalla preistoria per costruire i mezzi per crearla in base ai suoi gusti e alle sue necessità. I generi musicali nascono dalla creatività dell’uomo che non ha mai smesso di inventare. Dal pop al rock alla musica classica il panorama è vasto, credo che sia uno specchio della complessità dell’uomo. Per noi psicoterapeuti e musicoterapeuti i gusti musicali, i generi, le musiche e le canzoni preferite e non tollerate dai clienti sono molto importanti perché permettono di avere informazioni preziose che ci consentono di sintonizzarci rapidamente con il soggetto. La musica, per noi, è un mezzo di conoscenza dell’altro, della sua identità ed è un ponte comunicativo utile per la relazione d’aiuto.
È necessario l’utilizzo di uno strumento musicale per produrre effetti positivi o anche con il canto e la danza si possono ottenere gli stessi risultati?
Nella nostra esperienza abbiamo potuto verificare che gli strumenti musicali sono dei mezzi necessari per arrivare ad obiettivi specifici. Con un pianoforte, o una chitarra, ad esempio, possiamo creare un contesto armonico definito e accompagnare che significa anche orientare ed accogliere il soggetto. Ogni strumento ha un timbro e delle caratteristiche distintive, delle potenzialità. Lavorando con i bambini autistici ho avuto la necessità di imparare diversi strumenti per avere più mezzi espressivi, delle chiavi efficaci per aprire le porte che impediscono la comunicazione. Io sono diplomato in violino ma sono diventato polistrumentista per avere maggiori possibilità di arrivare a coinvolgere il soggetto. Per un assecondare le richieste di un bambino ho imparato la chitarra, per un altro l’ukulele e per un altro ancora uno strumento inventato nel 1998 che si chiama otamatone. Questo strumento (elettrofono digitale) ha la forma di una nota musicale e un viso con bocca che è possibile aprire e chiudere, è possibile cioè eseguire un vibrato simile a quello vocale. Ricordo che un ragazzo autistico si è avvicinato a me e mi ha chiesto: “che dice il bambino?” Se non avessi avuto l’otamatone non ci sarebbe stata questa interazione che ha poi permesso di stabilire una relazione terapeutica tra di noi. Credo che la voce sia lo strumento principale che abbiamo a disposizione (malanni e problemi permettendo) e che la danza sia utilissima quando è possibile eseguire il movimento. Io ho avuto una ragazza sulla sedia a rotelle che ha voluto comporre con me una canzone scegliendo tutti gli strumenti e suonandone anche alcuni perché aveva il desiderio di “far ballare”, di coinvolgere gli altri con un ritmo travolgente e un messaggio verbale positivo. Credo che se l’essere umano ha inventato le percussioni, la chitarra elettrica e tutti gli altri strumenti è stato anche perché in termini di funzionalità e benessere ne ha avuto la necessità.
Suonare uno strumento ha effetti positivi anche su memoria, capacità di concentrazione e coordinamento?
La musica è un potente stimolatore neuronale e suonare uno strumento promuove la neuroplasticità e aumenta le connessioni cerebrali. I cervelli dei musicisti hanno caratteristiche specifiche, esercitandosi su uno strumento vengono generate nuove sinapsi e le aree della corteccia motoria relative alle dita sono più estese in chi suona uno strumento come, ad esempio, il pianoforte o il violino. Dalla mia esperienza personale e di insegnante di violino posso dire che la musica, in maniera proporzionale ai livelli che si vogliono raggiungere, richiede concentrazione, impegno, sacrifici, per fare musica ci vogliono “cervello e cuore” ma poi arriva anche una grande soddisfazione nel suonare e possiamo usare la musica e per stimolarci, rilassarci e anche per far viaggiare la nostra anima. Purtroppo, l’ambiente in cui vivono i ragazzi non sempre offre stimoli positivi, io ho lavorato in una comunità con ragazzi che avevano storie drammatiche e, come direbbe J.S. Bach, “La musica può aiutare a non sentire dentro, il silenzio che c’è fuori”. Credo, quindi, che suonare uno strumento possa essere un’occasione di migliorare le nostre capacità e per metterci in contatto con noi stessi, con le nostre emozioni e per sentirci in armonia con gli altri quando suoniamo, ad esempio, in un gruppo o in orchestra.
Ci sono risultati di ricerche su qs domanda riferite a bambini, giovani adulti, anziani?
Nel nostro libro abbiamo approfondito i benefici della musica ed in particolare dell’utilizzo delle canzoni e citato numerose ricerche scientifiche che riguardano essere umano in tutte le fasi della sua esistenza. Dalle ricerche sui neonati a quelle sugli anziani. Noi siamo in continuo aggiornamento sugli articoli scientifici riguardanti il potenziale e l’effetto della musica per l’essere umano e come professionisti del settore abbiamo condotto personalmente delle ricerche. Io ho realizzato un laboratorio di musicoterapia e uno studio con dei pazienti affetti da Parkinson e i risultati dimostrano un abbassamento del livello dell’ansia e un miglioramento del tono dell’umore e del grado di benessere generale. I pazienti, riferivano di sentirsi meglio dopo la seduta, si sono creati dei gruppi, sono nate delle amicizie che sono durate nel tempo. Ricordo che poco dopo il mio laboratorio il neurologo Oliver Sacks ha pubblicato il suo libro Musicofilia e ha spiegato al grande pubblico i benefici della musica per il Parkinson, all’epoca fu un importante sostegno contro la diffidenza di alcuni medici che addirittura scoraggiavano i pazienti a partecipare e ostacolavano la mia presenza ai convegni. Probabilmente la stessa diffidenza che ha incontrato la Professoressa e Dottoressa Gabriella Giordanella Perilli (coautrice del libro) da parte di alcuni medici, che ha il dottorato di ricerca condotto sui pazienti psichiatrici e il focus sul “tempo soggettivo”, quando ha portato la musica negli ex-manicomi quarant’anni fa. La musica è uno stimolo difficile da “misurare” e credo che aldilà della scienza le conferme più importanti sono quelle che abbiamo ricevuto dalle persone con cui lavoriamo ogni giorno. Qualche mese fa durante la presentazione del nostro libro al FLA “Festival di Libri ed Altre cose”, una ragazza con cui ho composto una canzone è intervenuta dichiarando: “Comporre questa canzone mi ha aiutato ad accettarmi, è una canzone allegra ma che ha dei messaggi di fondo importanti. Prima stavo male, ero molto arrabbiata e vedevo solo il lato negativo, poi piano piano mi sono messa in gioco sempre di più e mi ha aiutato soprattutto la musica e adesso riesco finalmente a parlare delle mie emozioni e sono serena”.
Effetti sull’umore (soddisfazione, tranquillità)?
La musica ha da sempre finalità ricreative e di rilassamento; al contempo è anche uno stimolo dinamico e complesso che porta a marcati cambiamenti nelle emozioni e nel movimento: chi ascolta un brano percepisce le emozioni evocate dalla musica mimandole internamente attraverso la mediazione dei neuroni specchio, con risposte fisiologiche associate; benché la risposta alla musica sia pressoché universale, lo stimolo musicale viene valutato dal contenuto soggettivo della mente di ciascun ascoltatore. E’ importante sottolineare che, come riportato nel libro, teorie scientifiche ed esempi di esperienze illustrano che cambiando le emozioni vengono anche modificati pensieri inadeguati riguardo sé e la realtà.